La traccia della sua presenza. Breve ricordo di Franco Vaccari
La naturalezza con cui Franco Vaccari parlava della sua arte e dei suoi pensieri sull'immagine fotografica aveva qualcosa di sconcertante. Chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo (o di leggerlo) quando spiegava i presupposti delle sue “operazioni estetiche” o ricostruiva le circostanze delle “esposizioni in tempo reale” realizzate negli anni Settanta non può esserselo dimenticato. Poche parole, il ricordo di un incontro, la descrizione di un comportamento, una situazione vissuta, una lettura, una piccola parola fuori contesto, magari un riflesso di stampo antropologico proiettato su un dettaglio intravisto sotto la superficie della realtà e subito il punto di vista dell’interlocutore veniva capovolto, le idee comuni smascherate (o “ri-mascherate”), gli orizzonti di riferimento lacerati, dislocati e poi riconquistati attraverso altre ottiche o ottiche "altre".
Franco Vaccari non ha frequentato le scuole superiori al Venturi. Dopo il liceo scientifico si è laureato in fisica al Politecnico di Milano. Come lui stesso ricordava, era un artista che non aveva fatto studi artistici. In queste ore, però, in cui siamo ancora così vicini al momento della sua morte, anche l’Istituto Venturi, nel suo piccolo, in particolare come scuola di studi fotografici e audiovisivi, sente una forte esigenza di ricordare la sua figura e di rendere partecipe tutta la comunità scolastica di questa perdita che tocca i nervi più profondi della storia artistica modenese.
È una perdita che sarebbe bello pensare come un legame o come un impegno. Il Venturi è uno dei luoghi della nostra città in cui la fotografia si “impara”, si studia, si fa tutti i giorni. Nelle sale di posa e davanti ai computer i nostri studenti e le nostre studentesse prendono in mano i mezzi, gli strumenti, le tecnologie dell’immagine fotografica. In pratica, si trovano continuamente a contatto con tutto ciò su cui Franco Vaccari non ha mai smesso di ragionare, di discutere, di spiegare, di rivelare a se stesso e a noi.
Nell’introduzione del 1972 al suo saggio su Fotografia e inconscio tecnologico (Einaudi, 2011), che è lo straordinario documento teorico di una vera e propria avventura estetico/intellettuale, Vaccari ha scritto che gli artisti della sua generazione “cercavano di rieducarsi dalle fondamenta alle tecniche di rapporto con la realtà”. Nell’era digitale, quando le fotografie sembrano davvero essere diventate più uno strumento di relazione interpersonale che una tecnica di composizione dell’immagine, Vaccari era e resta l’artista a cui rivolgersi per “scardinare i condizionamenti visivi”, come scriveva, “e arrivare a vedere quello che non si sapeva”. In una parola, in Vaccari si riconosce un maestro, forse un maestro per studenti-amici, un "faro", a cui la nostra scuola, nel suo lavoro di tutti i giorni, vorrebbe guardare, raccogliendo per prima cosa, con coscienza sperimentale, il suo invito a essere interlocutori, compagni di strada dell’arte e della fotografia.
In fondo, questa ricerca di una relazione, la richiesta di “uno scambio reale” è anche l’effetto che hanno molte delle sue opere su chi le guarda. Almeno al primo contatto, non si capisce mai bene cosa si sta guardando o chi sta guardando chi. Cosa sono i Cani lenti? Fotogrammi di un misterioso filmato amatoriale riemerso da un tempo parallelo? Cosa sono le esposizioni con la Photomatic? Strip di fototessera cadute di tasca a qualcuno? Cos’è Omaggio all’Ariosto? Il gioco di un bambino che ha incollato una foto polaroid sopra una cartolina e poi l’ha spedita a un museo?
Indizi, spie, segni, apparizioni, incontri… per di più latenti, nascosti, immagini fragili che bisogna far riemergere, in qualche modo, da un'ombra-custodia. Come per l’archetipo Duchamp, non è facile vedere le opere d’arte di Franco Vaccari, le poesie visive, i disegni, le fotografie, i collage. Lo spettatore deve seguirle, inseguirle, incontrarle, magari per caso, in un’occasione espositiva, nei musei fotografici di Modena o nella casa di un qualche amico artista modenese. Sono come semi cresciuti lentamente nel buio che hanno generato molti frutti. Tanto che a volte non c’è neanche più bisogno di vederle anche perché spesso non è più possibile. Sono scomparse. Il loro tempo reale è tramontato.
Pensiamo solo, per un istante, alla sua opera più conosciuta Esposizione in tempo reale n.4: lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio. È l’esposizione, alla Biennale 1972, in cui Vaccari mise in una sala una macchina automatica per fototessera invitando il pubblico, con la frase del titolo, a inserire le monete necessarie, scattarsi una striscia di quattro foto e incollarla al muro. “L’esposizione”, spiegava Vaccari negli anni Ottanta, “era un organismo in crescita che interagiva con ogni aspetto dell’ambiente”. E, in effetti, anche oggi, dopo più di cinquant’anni, basta leggere con attenzione il titolo dell’opera. C’è il tu (lascia) che invita lo spettatore, qualsiasi spettatore, a entrare dentro l’opera facendo qualcosa. C’è il luogo reale (queste pareti) e poi ci sono la traccia e il passaggio, due parole vertiginose, sospese, fra il fisico e il metafisico, che richiamano quasi il senso transitorio del viaggio terreno di ognuno di noi. L’opera non si può più vedere. Ne restano solo testimonianze, residui, campioni, cataloghi ma appena la si incontra è come se fosse ancora qui a esercitare tutto il suo magnetismo, a innescare il cortocircuito, a proporre una situazione di rischio creativo. Ed è per questo, anche, che la morte di Franco Vaccari tocca nel profondo la nostra scuola e il nostro lavoro di formazione ai linguaggi dell’arte e della fotografia.
Ma, secondo noi, non c’è assenza che tenga: proveremo a seguire la traccia.
[Per l'Istituto Venturi - Jonathan Sisco]





